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La Georgia è connessa all’Unione Europea attraverso un Association Agreement in forza dal 2016. Praticamente ignorato dai paesi dell’Europa occidentale e centrale, l’accordo include un piano di riforme dell’economia, della società e delle politiche pubbliche che sta scuotendo il panorama politico georgiano. Come altri paesi nel passato più o meno recente, la Georgia deve soddisfare determinati “standard democratici”, rafforzare la sua economia di mercato, creare un ambiente favorevole agli investimenti, trasformare le sue politiche migratorie e dare una stretta al controllo sui confini. Dopo una guerra e quasi due decenni di selvagge riforme neoliberali che hanno cancellato qualsiasi diritto sociale e sul lavoro, ora l’UE interviene con l’obiettivo di promuovere la stabilità in favore dell’espansione degli investimenti.

Noi crediamo che ciò che accade oggi in Georgia sia indicativo della dimensione globale e transnazionale della politica contemporanea. La Georgia è, infatti, profondamente integrata in uno scenario transnazionale. Più di mezzo milione di donne georgiane lavorano in Europa, soprattutto nel settore della cura, tappando i buchi del welfare e mandando a casa rimesse che sono una componente cruciale dell’economia nazionale. Massicci piani infrastrutturali legati al progetto della Belt and Road e ad altre reti infrastrutturali transeuropee stanno facendo del paese una cruciale zona di transito tra Asia ed Europa. L’intero paese è una zona economica speciale tax-free per attrarre investimenti stranieri. Le istituzioni finanziarie controllano la vita di centinaia di migliaia di georgiani che si indebitano per soddisfare anche i bisogni più basilari. Attualmente la Georgia è il primo destinatario dei fondi della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che, insieme alla Banca Europea per gli Investimenti, ha contribuito ad alimentare un’ondata di investimenti in progetti infrastrutturali, grazie a una legislazione che difende gli investitori a scapito dei più basilari diritti di lavoratori e lavoratrici e pone lo Stato a difesa del profitto. Anche se la conversione industriale della Georgia non è in vista, la riproduzione della società georgiana è connessa in molti modi a dinamiche transnazionali: non è quindi politicamente utile porre una chiusura nazionale come soluzione rispetto alla potenziale integrazione nell’UE.

La Georgia non è nell’EU, ma l’Association Agreement sta producendo effetti reali: riferimenti all’accordo sono sistematicamente usati dal governo, dalle ONG che si preoccupano della presunta “transizione democratica” e dai principali sindacati per incanalare le lotte sociali e sul lavoro in forme più controllate e benevole. L’accordo sta sospendendo il tempo politico e cancellando il presente in vista di un futuro che si presume migliore. Com’è ovvio, questo futuro è costruito interamente al di sopra delle teste di coloro che ne saranno colpiti. Il diritto di sciopero è sotto attacco in Georgia come ovunque, ma qui l’Association Agreement gioca un ruolo specifico: lo sciopero è rappresentato come un’“arma barbarica”, che non rientra nella pratica civilizzata del dialogo tra le parti sociali, mentre il modello centro-europeo della cogestione aziendale tra sindacati e imprenditori è presentato come la vera chiave del «sogno georgiano». Il modello di negoziazione alla base del tentativo di eliminare la possibilità di praticare lo sciopero negli Stati membri dell’UE è uno dei pilastri dell’allargamento europeo a Est.

L’accordo con l’UE presume che le riforme saranno accettate silenziosamente dai lavoratori e dalle lavoratrici georgiani, perché la “democrazia del mercato” e la prospettiva di diventare un bacino di lavoro povero e migrante è il meglio a cui possono aspirare. I piani di investimenti infrastrutturali nella regione, oltre a evocare la frenesia infrastrutturale che rende l’Asia centrale un punto cruciale per sviluppi futuri che colpiranno l’Est e l’Ovest, incombono come un ricatto e un avvertimento: l’ambiente è favorevole al business solo se c’è pace sociale, solo se coloro che abitano quell’ambiente non parlano tra loro, solo se non avanzano pretese collettive. Questo mostra in maniera lampante quanto la logistica dello sfruttamento costruisca il suo ambiente sulla base della frammentazione del potere collettivo di lavoratori e lavoratrici. Il punto è allora chiedersi come accumulare potere in questa situazione e in situazioni analoghe che costellano lo spazio transnazionale, senza lasciare alla prospettiva giuridica degli accordi tra governi il monopolio del presente e l’ipoteca sul futuro.

Queste domande non riguardano semplicemente la Georgia: crediamo che tutto questo ci ponga una serie di problemi nuovi quando affrontiamo la questione centrale di come organizzarci a livello transnazionale. Questo mostra che l’UE, mentre impone riforme neoliberali nei paesi dell’Europa centrale e occidentale, sta estendendo la sua presa transnazionale a Est e lungo i Balcani. Mentre è scossa da profonde crisi politiche – come la Brexit e l’insurrezione francese –, l’UE sta continuando la sua integrazione strutturale e il suo allargamento. Questo processo va di pari passo con l’erosione dei diritti e del welfare e con la generale precarizzazione del lavoro che è ormai una realtà in ogni Stato membro. Per perseguire una strategia transnazionale, senza inseguire illusioni nazionalistiche, dobbiamo comprendere questi processi e il modo in cui impattano la nostra capacità di scioperare e lottare, per rovesciare la dimensione transnazionale in una fonte di forza invece che di debolezza. È per questa ragione che, dopo aver tenuto il nostro primo meeting a Poznan per incrementare la partecipazione dai paesi Est europei e meeting in molte capitali europee, abbiamo deciso di incontrarci in Georgia per ampliare la portata dell’iniziativa del TSS anche al di fuori dell’UE.

In più, a Tbilisi discuteremo l’uso politico dello sciopero nel contesto georgiano come un modo per riprendere l’iniziativa nei luoghi di lavoro e nella società e superare i confini tra settori e paesi. In questo ci appoggiamo a movimenti presenti che hanno un forte carattere transnazionale: lo sciopero femminista, che ha scatenato mobilitazioni in decine di paesi in tutto il mondo a partire dal fatto che la divisione sessuale del lavoro e la violenza maschile contro le donne non sono fatti nazionali, ma globali. I migranti e le migranti che quotidianamente vivono una realtà transnazionale attraversando i confini e i lavoratori in distacco o le lavoratrici domestiche che usano quotidianamente la loro mobilità per avvantaggiarsi dei differenziali salariali. Le infermiere in Bulgaria che sono recentemente entrate in sciopero in più di trenta città dichiarando che se il governo non garantisce loro migliori condizioni, lasceranno il paese. Operai e operaie nelle fabbriche straniere impiantate nell’Est Europa, lavoratori dei trasporti, insegnanti ed educatrici che scioperano contro le politiche che i governi populisti stanno approvando a favore dei profitti stranieri, come mostrano le proteste in Ungheria contro la slave law. Nuovi esperimenti di coordinamento transnazionale dei magazzini di Amazon in molti paesi europei stanno aprendo la strada a nuove forme di lotta contro imprese multinazionali. A partire da questa situazione mobile, e collocando la nostra discussione in un paese dove pressioni da Ovest si combinano con pressioni da Est per imporre una nuova logistica dello sfruttamento, vogliamo discutere gli strumenti e le strategie di cui abbiamo bisogno per produrre e dare una direzione comune alla nostra comunicazione transnazionale.